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    Dai ricordi degli esordi alle lacrime dell’addio: Francesco Totti si racconta a Il Venerdì di Repubblica


    A pochi giorni dall’uscita della sua biografia, Francesco Totti ha rilasciato un’intervista a Il Venerdì. Ecco un estratto delle parole del dirigente giallorosso al magazine settimanale di Repubblica

    Adesso quando ti alzi ti annoi?

    “Ancora no. Le giornate sono quasi come quelle da calciatore. Mi sveglio, porti i figli a scuola, poi vado a Trigoria, sto col mister, la squadra, seguo tutti gli allenamenti. Dopo pranzo torno e mi dedico ai ragazzi”.

    Perché non hai chiuso la carriera giocando in America?

    “Perché avrei rovinato 25 anni di carriera. Ho sempre detto che avrei indossato un’unica maglia. Sono uno di parola”.

    Per averti il Milan era pronto a scucire 300 milioni e avevi solo 12 anni…

    “In quel caso il ‘No’ fu della mia famiglia. Soprattutto i di mia madre. È vecchia maniera: apprensiva, possessiva. Papà lavorava fino a tardi. Era sempre lei a starmi dietro. Non voleva che mi allontanassi. Mi voleva tutto per sé”.

    Ora il pallone di strada è praticamente proibito. Tu invece hai imparato tanto calciando contro i muri o giocando a “Paperelle”. Che roba era?

    “Un gioco inventato da noi. All’entrata della scuola Manzoni c’erano gradini lunghi quasi 50 metri. Uno doveva scenderli, percorrendoli tutti in orizzontale mentre altri due cercavano di beccarlo col pallone tirando da una decina di metri. Bell’esercizio di mira”.

    Stavi sempre per strada. Quando invece ti lasciavano a casa da solo ti fingevi morto per paura dei ladri, dell’Uomo Nero.

    “Pensavo che a un ragazzino morto un ladro non gli avrebbe fatto niente”.

    Qualcuna di quelle paure t’è rimasta?

    “No, però quando Ilary mi costringe a vedere un horror io chiudo gli occhi”.

    Alla prima partita da titolare il battesimo del fuoco fu un’entrataccia del molosso Vierchowod: Roma-Samp.

    “Di Coppa Italia, sì. Mi arrivò duro da dietro dopo otto secondi. Volveva mettermi paura. E un po’ me ne ha messa. Mi sono detto, se comincia così, al novantesimo non c’arrivo. Ma Vierchowod era mastino solo sul campo. Fuori era uno perbene”.

    Durante i festeggiamenti dello Scudetto sei stato costretto a rifugiarti in un convento sull’Aventino.

    “Ero a cena con parenti e amici in un ristorante quando cominciammo a sentire un boato di folla. S’era sparsa la voce che ero lì. A un certo punto m’affaccio: di sotto cinquemila persona bloccavano le strade. Volevano entrare. Il proprietario mi dice: non c’è una seconda uscita. L’unica è scavalcare l’inferriata e scappare da su, dalla parte del convento. Con tre o quattro amici c’arrampichiamo sulla scarpata nel buio, tra le piante. Appena saltata la recinzione mi dico: se qui c’è qualche cane da guardia ce se sbrana. Invece arriva un tizio con una torcia. È un frate. Mi illumina la faccia: ‘Ma tu sei Totti!’. Prima di farci uscire mi ha chiesto l’autografo”.

    Quando hai rosicato di più da giocatore?

    “Quando prendemmo un gol all’ultimo dallo Slavia Praga e non andammo in semifinale di UEFA. Poi qualche derby e la finale dell’Europeo persa con la Francia”.

    Quello fu anche l’Europeo del tuo rigore a cucchiaio nella semifinale contro l’Olanda. Nel libro dici: quando tiri un rigore decisivo è meglio se non pensi ai milioni di persone che ti stanno guardando. È meglio se lo calci come per vincere una scommessa al bar.

    “In quel caso avevo davvero scommesso con Maldini, Nesta, Di Biagio che se fosse finita ai rigori io avrei fatto il cucchiaio. Mi sfottevano: parli così in allenamento, in partita è diverso. Ma il giorno dopo, quando andando verso il dischetto dissi che avrei mantenuto la parole, mi scongiuravano di ripensarci: “Sei scemo? Guarda che se lo sbagli c’ammazzano!”.

    È vero che da piccolo incollavi le figurine dei calciatori laziali al contrario?

    “A testa in giù. Uniche di tutto l’album”.

    Al momento dell’addio al calcio, però, gli Irriducibili della Curva Nord ti hanno reso onore con lo striscione: I nemici di una vita salutano Francesco Totti.

    “Ci può sempre essere il cretino che ti insulta o ti fa la battutaccia, ma quando li incontro per strada la maggior parte dei laziali sono sportivi, mi fanno i complimenti. E anche quelli delle altre tifoserie se mi vedono in tribuna a Bergamo, Milano, Torino…e pensare che quando giocano me facevano a pezzi. Forse anche allora gli piacevo, ma non lo potevano dire”.

    Quanto hai pianto il giorno dell’addio?

    “In pubblico tanto, in privato pure de più”.